Un parere del Dalai Lama
Il Dalai Lama, in un articolo a cura del Canada Tibet Committee, pubblicato il 18 September 1996 su World Tibet Network News, dichiarò accettabile l’eutanasia per «coloro che sono in coma senza possibilità di recupero». A una domanda su quale fosse il suo punto di vista sull’eutanasia, il Dalai Lama disse che i buddhisti credono che ogni vita sia preziosa — tanto più quella umana —, aggiungendo: «Credo che sarebbe meglio evitarla. Ma, nello stesso tempo, penso, come per l’aborto, (che) il buddhismo considera un’uccisione … che la via buddista sia di valutare coscienziosamente il bene e il male ovvero tutti i pro e i contro». Citò quindi il caso di una persona in coma senza possibilità di recupero e quello di una donna la cui gravidanza metteva in pericolo la sua vita o quella del bambino o quella di entrambi, casi in cui il danno causato dal mancato intervento sarebbe potuto essere più grande. «Questi sono, credo, dal punto di vista buddhista, casi estremi» disse. «Quindi è meglio valutare caso per caso».
Monaco in fiamme: Saigon, 1963
Alcune regole monastiche buddhiste, vietano esplicitamente l’eutanasia; ma per i laici non c’è un codice di condotta altrettanto dettagliato. Sono tenuti «solo» all’osservanza dei cinque precetti, il primo dei quali, però, è «non uccidere». La maggior parte dei buddhisti considera la morte come una transizione. La persona che muore rinascerà a nuova vita, la cui qualità sarà il risultato del karma pregresso. Questa credenza genera due problemi. In primo luogo, non si può sapere come sarà la successiva vita del morente. Se fosse peggiore della vita attuale, l’eutanasia sarebbe chiaramente un errore, perché ponendo termine all’attuale stato delle cose, favorirebbe l’instaurarsi d’uno stato ancora peggiore. Insomma, la persona sofferente passerebbe dalla padella alla brace. Il secondo problema è che abbreviare la vita interferirebbe con la maturazione del karma e altererebbe l’equilibrio karmico risultante dalla vita volontariamente terminata. Un’altra difficoltà ancora si presenta se consideriamo l’eutanasia volontaria come una forma di suicidio.
Il Buddha, in due casi (Vakkali Sutta e Channa Sutta, entrambi nel Samyutta Nikāya, vedi qui sotto) mostrò tolleranza di fronte al suicidio compiuto dai bhikkhu. La tradizione giapponese narra molte storie di monaci che si danno la morte. Inoltre il suicidio è stato usato come arma politica dai monaci buddhisti durante la guerra del Vietnam. I suicidi dei laici tibetani attuati recentemente in India e Tibet sarebbero un caso ancora diverso. Perché, secondo le credenze buddhiste, il modo in cui finisce la vita ha un profondo impatto sul modo in cui comincerà la vita successiva. Quindi lo stato mentale di una persona al momento della morte è cruciale: il pensiero del morente dovrebbe, idealmente, essere generoso e illuminato, esente da rabbia, odio o paura. Ciò fa pensare che il suicidio (e quindi l’eutanasia) sia praticabile senza ricadute karmiche indesiderabili solo dalle persone che hanno raggiunto un elevatissimo grado di risveglio.

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